domenica 9 agosto 2015

Da un lavoro all'altro, come Tarzan sulle liane.

Sono un'insegnante.

Questa affermazione ha dei significati strettamente legati al territorio in cui viene pronunciata.
Non tanto perché chi insegna può facilmente dover cambiare il paese in cui lavora, soprattutto ora, e quindi anche la lingua in cui si esprime quotidianamente, ma soprattutto perché il lavoro stesso dell'insegnante implica un adattamento alla realtà circostante che lo porta un po' ad assomigliare sempre più a un camaleonte.

Mi tocca tornare indietro nel tempo, a quando nel 2006, dopo due anni di fidanzamento (a distanza, part-time, schizofrenico e anche meravigliosamente pacifico, considerando che a causa del fuso orario ero sempre assopita quando finalmente potevamo collegarci su Skype) io e il mio colombiano abbiamo deciso di sposarci.

Non affronto le peripezie burocratiche che scaturiscono da un incontro italo-colombo-statunitense.

Dopo circa un mesetto di vacanze-campeggio in giro per la Corsica e le spiaggie sarde, ci siamo resi conto che bisognava pensare a dove avremmo costruito il nostro nido.

La mia isola non si è mostrata molto accogliente dal punto di vista lavorativo e chiaramente è toccato a me spiccare il volo verso il Nuovo Mondo.

Presa una meravigliosa aspettativa per motivi di famiglia, sono approdata sulla costa est, alla conquista delle scuole texane.

Dopo un paio di settimane seguivo già un percorso alternativo per avere accesso all'insegnamento nelle scuole texane.
Sborsati $300 per un paio di anni di impegno con un'agenzia formativa, dopo quattro mesi avevo già trovato lavoro per un distretto scolastico come insegnante bilingue, avevo un avvocato che si sarebbe occupato della burocrazia migratoria, ed ero diventata una maestra bilingue.

Detto così sembra semplice, in realtà almeno per l'aspetto burocratico, legato anche a movimenti e pertinenze abbastanza sospette, il percorso ha avuto anche i suoi ostacoli.

Venendo dalla scuola pubblica italiana, con vari anni di esperienza sia alle elementari che alle medie e nell'insegnamento agli adulti, con due concorsi alle spalle e vari corsi di aggiornamento, conseguire l'abilitazione (anzi, LE abilitazioni, ben 7!) negli Stati Uniti è stato decisamente facile.

Gli esami si preparavano nel tempo libero, un po' come da noi si fanno le parole crociate; una, due volte la settimana si frequentava il corso, e alla fine del primo anno sono stati fatti i corsi online.
Praticamente un gioco da bambini rispetto ai due anni di studio intenso di lingua, letteratura e metodologia che sono necessari per affrontare in maniera onesta i concorsi in patria.

Certo, anche in Italia di abilitazioni ne avevo comunque varie, ma la facilità di accesso all'insegnamento negli Stati Uniti non ha paragoni. (Il che è un vantaggio per chi vuole insegnare, ma anche una delle ragioni per cui secondo me molti mollano dopo pochi anni, perché, avendo sottovalutato il mestiere giudicandolo dal biglietto di ingresso, davanti a una classe affamata di sapere, uno che ne ha poco crolla...)

Primo anno da maestra bilingue
Mentre le mie colleghe in Italia si godevano ancora il sole sulle spiagge d'agosto, io a metà mese ero già al lavoro, in piena fase preparatoria, a seguire corsi di aggiornamento per otto ore al giorno per una settimana.
40 ore di aggiornamento.
E ancora non avevo visto una classe.
L'aula sì, quella non solo l'avevo vista, ma dopo le otto ore di aggiornamento dovevo anche andare ad adornarla didatticamente, stabilendo cosa avrei insegnato dove e come e qual era il posto di ogni libro e ogni oggetto che avrei usato durante l'anno.
Programmazione strutturale la chiamerei, o come usare pareti, angoli, banchi e lavagne perché tutto abbia un senso, un suo uso e una sua logica.
Considerando che in Italia la mia aula di inglese alle elementari era stata ricavata da un passaggio che metteva in comunicazione due parti dell'edificio scolastico e che quindi ci portava a dover praticare all'eccesso i saluti verso chi passava nel bel mezzo della lezione, e che alle medie le pareti erano normalmente occupate da varie cartine, mi sentivo in paradiso.
Avevo uno spazio mio, che finalmente poteva diventare uno strumento di insegnamento, non più solo quattro mura da cui fuggire.

Certo, le mura di casa mia di solito non le vedevo prima delle otto di sera.

Poi è cominciato l'anno scolastico. Più o meno come in Italia: due ore di programmazione settimanale, il solito lavoro di programmazione individuale dopo le lezioni.
Più due ore di corsi di recupero per gli alunni che ne avevano bisogno alle sette della mattina.
Più arrivare almeno mezz'ora prima delle lezioni (alle 6:30 martedì e giovedì, alle sette gli altri giorni).
Più i corsi di aggiornamento il sabato (che sennò non ti rinnovano l'abilitazione dopo cinque anni).

Insomma, una vita lavorativa intensa.

Senza contare le ore di studio che ti toccano quando sei laureata in lingue e devi insegnare scienze, matematica, studi sociali (americani, quindi sconosciuti) e preparare gli alunni a sostenere esami mai visti.

Poi sono passata al liceo a insegnare francese.

Il liceo: my cup of tea!
Indubbiamente meno studio a monte: almeno la materia, la conoscevo già!

Niente aula: il liceo con una popolazione di più di 3500 alunni non aveva spazi adeguati e mi toccava fare la floater (che avendo a che fare con il verbo galleggiare porta a riferimenti chiari, almeno per un'italiana) e spingere materiali e strumenti tecnologici su un carrello da un'aula all'altra. (In Italia tanto avrei dovuto comunque vagare fra i locali di un qualunque istituto, non accompagnata però né da materiali, né da tecnologia...)

Con il tempo (e il licenziamento di un numero notevole di insegnanti a causa di tagli al bilancio (che un po' ci sono, un po' vengono usati come scuse per una pulizia accademica quando di accademico l'insegnante aveva ben poco...), ho cominciato a insegnare anche italiano e poco a poco il programma di italiano è cresciuto: ora insegno felicemente a sei classi, di cui una di ben 44 studenti (li chiamo i 44 gatti e ogni tanto ci cantiamo anche la canzone...).

Grande successo di pubblico insomma.

Mi riposo di più che alle elementari?

Certo che no!
Adesso anziché dover fare i corsi di recupero alle sette di mattina, devo farli tutti i giorni all'ora di pranzo, quindi passo le lezioni del dopo pranzo a ruminare la mia insalata mentre spiego i pronomi o un tempo verbale.

Elegante come sempre, io.

E poi ci sono i concorsi vari, le associazioni studentesche da sponsorizzare, gli esami di stato a cui preparare gli alunni che sennò la scuola non prende soldi, gli scambi da organizzare per portare gli alunni in Italia quasi a costo zero (io ho insegnato, insegno e sempre insegnerò solo ed esclusivamente nella scuola pubblica, quindi offro opportunità il più possibile gratis o a costi che quasi tutti possano permettersi).

Il tempo libero?
Essere insegnanti porta indubbiamente il vantaggio del tempo libero.
È però il concetto del tempo libero che cambia.
In Italia nessuno poteva togliermi di andare in palestra, a fare una paseggiata con le amiche, di pomeriggio la pennichella del dopo Beautiful non me la toglieva nessuno. Il giorno libero potevo decidere come passarlo, magari a organizzare la casa, fare il bucato, oppure a leggere un libro (i blog per perdere tempo ancora non li conoscevo...) e poi arrivava anche il fine settimana!!!
Per non parlare dell'orario dei giorni lavorativi: con 18 ore di contratto c'erano anche le giornate che dormivo fino alle 9:30!!
Insomma, l'equivalente di un lavoro part-time...
Non confondiamoci, anche lo stipendio era da part-time.
Ma la creatività e l'amore per gli alunni veniva incontro alle bollette e ogni anno c'erano progetti in più a cui lavorare (sottopagati quando non gratis...).

Anche negli USA il tempo libero degli insegnanti è molto invidiato: le vacanze vanno dal 30 maggio fin ben al 10 agosto, 15 giorni a Natale (oh, sorry! Winter Break!!!), Venerdì Santo libero e una settimana di Spring Break. Che pure aggiungendoci il Martin Luther King Day non siamo nemmeno vicino alle vacanze italiane...
Sabato libero per tutti, il weekend diventa un'oasi di respiro a fine settimana.
Lo stipendio, lavorando 40 ore contrattuali la settimana, è il doppio.
E il lavoro pure.
E anche con lo stipendio al doppio la realtà è che la maggior parte degli insegnanti (non sposati con ingegneri chimici, medici o avvocati...) devono comunque arrotondare con altri lavori.
Io ne ho ben tre.
Liceo, università la sera e anche online una volta al mese di notte per una settimana.

Il vantaggio è che se qui vuoi arrotondare hai solo l'imbarazzo della scelta: mai rifiutate tante opportunità come da quando sto qui.

La valutazione
No, non degli alunni.
La mia.
Sì, perché una delle più grandi differenze fra USA e Italia come insegnanti è che qui, a te che tanto te la meni che stai dietro una cattedra, alla fine dell'anno ti fanno una pagella così!

Il mio si chiama TADS (Teacher Appraisal and Development System), quello del mio colombiano si chiama PDAS. Stessa roba.
Durante l'anno devi dimostrare più volte di essere un bravo insegnante, di avere rapporti cordiali e costruttivi con i colleghi e con i genitori, di aver aiutato fino allo sfinimento gli alunni prima di riciclarli nell'apposito contenitore, con strategie sempre diverse, metodi appropriati, creatività, comprensione e infinite possibilità di recupero; devi dimostrare di aver seguito infiniti corsi di aggiornamento e di aver adattato di conseguenza il tuo insegnamento.
Ma soprattutto: non te la devi fare addosso quando vengono e si siedono in classe ad osservare la tua performance.
Entrano di soppiatto, nemmeno salutano, si siedono in un angolino, guardano e scrivono, guardano e scrivono...
Mentre tu ti chiedi: ma che c'avrai da scrivere????
Quello che da scrivere aveva, ti viene poi comunicato per iscritto e può anche essere discusso in un regolare colloquio con il valutatore (sempre interno alla scuola). Non ti piace cosa ha scritto e/o detto? Chiedi un altro valutatore.

E se tutto va bene, piovono i complimenti a destra e a manca e tu finisci l'anno sentendoti una divinità dell'apprendimento.
Oppure no.

Insomma, a conti fatti insegnare qui, insegnare lì, i ragazzi sono sempre ragazzi.
Vogliono essere ascoltati, apprezzati, capiti e vogliono avere la possibilità di sbagliare senza che tu ti arrenda.

E perché un insegnante non si arrenda è necessario un sistema che valuti, apprezzi, sborsi i quattrini dovuti e offra strumenti e metodologie per farci andare avanti e stimolarci a imparare e aver ogni giorno una voglia nuova di insegnare.