giovedì 24 marzo 2016

Siamo qui per essere felici

Ho avuto una settimana pesante.
Il furto della mia borsa, con conseguente perdita dei documenti e delle carte di credito mi ha notevolmente stressato.
Per giunta questa settimana i miei studenti dovevano sostenere degli esami, per la prima volta online, e siccome io motivo tutti a partecipare e impegnarsi, ne dovevo gestire, da sola, ben 100 in due giorni.
Una settimana pesante.

Dover domare poi gli studenti dell'ultimo anno, chiedendo un po' di silenzio per poter organizzare l'esame nel modo più sereno, e vederli invece che facevano un po' quello che volevano proprio quando era necessario dare le istruzioni, non ha aiutato.

Oggi però gli studenti del livello 3 sono arrivati, silenziosissimi si sono seduti, hanno aspettato le istruzioni, le hanno seguite, i problemi tecnici che abbiamo incontrato sono stati risolti immediatamente e senza problemi.

E allora mi sono chiesta il perché.

Quando questi ragazzi erano al livello 2, c'erano stati alcuni problemi nella divisione delle classi.
Insomma, per farla breve, avevo una classe di livello 2 avanzato con 44 alunni.

44.
44.
44.

Da preparare per sostenere l'AP di italiano.
A cui far raggiungere livelli avanzati di contenuti e competenze.

Lì mi sono chiesta come fare.

Potevo scegliere il metodo frustali tutti i giorni come i leoni al circo, potevo scappare.

Invece sono entrata in classe e gli ho detto chiaramente che insegnare a un gruppo di 44 ragazzi l'italiano, far praticare loro l'orale e lo scritto tutti i giorni, dare a ciascuno un piccolo spazio a cui avrebbero avuto diritto, era impossibile.

A meno che...

A meno che non lavorassimo insieme tutti quanti, non ci responsabilizzassimo tutti a rispettare i momenti di ascolto e di produzione, non collaborassimo a rendere quell'aula sovraffollata un luogo di rispetto e di armonia.

Ho anche spiegato che il mio obiettivo era lo stesso obiettivo loro: che imparassero l'italiano. E che se questo non fosse stato possibile, le conseguenze sarebbero state catastrofiche per tutti noi, visti i numeri.

Ho raccontato loro di un video che avevo visto su un insegnante giapponese che insegnava ai suoi alunni che a scuola bisognava andarci per essere felici, e che anche io credevo che la scuola dovesse portare felicità, crescita e progresso.

Intimiditi quanto basta dal numero di coetanei che circondava ognuno di loro e dal numero di banchi che impediva qualsiasi movimento, hanno accettato.

Per tutto l'anno ognuno di loro ha avuto 30 secondi al giorno per parlare, cinque minuti per scrivere e il resto della lezione, per fortuna gestita in maniera collaborativa, almeno quella non misurata in termini di tempo...

Ogni volta che succedeva qualcosa per cui l'ordine creato rischiava di crollare, quando arrivavano le lacrime, quando tutto diventava difficile, ci fermavamo e ci ricordavamo che eravamo lì per essere felici, che non avremmo permesso allo stress di entrare nella nostra classe.

Avevamo anche un momento tutto nostro.
Una canzone.

Quando finivamo il lavoro che ci eravamo ripromessi di fare, cantavamo la nostra canzone, a squarciagola.

Ha funzionato.
E si va avanti un altro giorno.


martedì 22 marzo 2016

Grazie!

Quest'anno ho dimenticato di insegnare qualcosa di fondamentale.
L'ho dato per scontato.
Mi sono ritrovata degli studenti simpatici, in gran parte motivati, e così ho dimenticato una parte molto importante del mio insegnamento.

Ma cominciamo dall'inizio.

Un paio di anni fa, una collega con molti anni di esperienza che le erano valsi la fama di strega-regina, maga dalla bacchetta incantata che trasformava gli studenti in perfetti francesi una volta che varcavano la soglia della sua aula, questa collega dicevo, era furibonda.
''Gli studenti,'' diceva,''sono degli irriconoscenti.''
Lei passava le giornate, le serate, a volta fino a molto tardi, a lavorare per loro. Si caricava di lavoro e si assumeva responsabilità di ogni tipo per dare loro delle opportunità.
Senza mai un ringraziamento, un gesto qualsiasi di riconoscimento di quello che faceva per loro.

Ora, prima o poi durante l'anno scolastico mi sa che tutti ci sentiamo così.
Chi lavora bene, di solito lavora troppo.
Un collega italiano mi diceva sempre: "Se hai un lavoro da affidare a qualcuno, affidalo a chi è già impegnatissimo, probabilmente lo farà bene."

Un po' non sappiamo dire di no, un po' non vogliamo che gli studenti perdano delle opportunità.

Ma perché degli studenti, che daltronde facevano tutto quello che veniva loro chiesto, arrivavano a non mostrare alcuna gratitudine verso una persona che dava loro tanto?

Perché nella maggior parte dei casi, non glielo insegna nessuno.

Nella società in cui viviamo, anche nella società americana, tanto incline all'acquisto dei bigliettini di ringraziamento per qualsiasi occasione, che festeggia la settimana dell'infermiere, dell'insegnante, del capo e così via, per invitare tutti a ringraziare chi col suo lavoro migliora la società, anche qui, sembra che ai ragazzi bisogna rendere tutto semplice, divertente, e sembra che questo inzuccheramento della pillola-apprendimento sia loro dovuto. Così come in famiglia tutti i sacrifici dei genitori siano ugualmente dovuti.
Non su loro richiesta però, quanto per mancanza da parte nostra di un insegnamento fondamentale: la pronuncia sincera e ben assimilata della parola GRAZIE.

Insomma ai bambini e ai ragazzi a dire grazie non lo insegna nessuno. Non è che loro non nutrano sentimenti di riconoscimento nascosti in fondo al cuore, è  che non non gli chiediamo di esternarlo.

Così, qualche anno fa mi ero messa d'impegno a sottolineare ai miei studenti ogni sforzo che facevo che andasse anche solo vagamente oltre il minimo richiesto per non perdere il lavoro.

Semplicemente, in classe, ogni volta che un quiz andava bene, che qualcuno si rendeva conto di essere migliorato, che dicevo loro cosa avevo organizzato per la settimana dopo, chiedevo alla classe: "E cosa si dice alla Prof?"
La risposta corale era: "Grazie, Prof.!"
Si faceva un po' per ridere, un po' per fare cionfra, come si dice dalle mie parti,
Ma il messaggio passava.

Avevo spiegato loro la mia teoria sul fatto che loro non sapessero esprimere la gratitudine, pur provandola, e loro avevano convenuto con me che in effetti non gli veniva mai chiesto di esprimere questo sentimento.

Quest'anno, accidenti, ho dato per scontato che lo sapessero fare.
Le lezioni di gratitudine non sono cominciate e siamo già a marzo...

Mi tocca fare un corso accelerato e rischio la rivoluzione...

Rivoluzione sia!

Da domani si comincia.

Non è mai tardi per cominciare a dire grazie, daltronde.

Prego!

domenica 20 marzo 2016

Gli esami non finiscono mai

Gli Stati Uniti sono una macchina da valutazione.
Il feedback viene chiesto per tutto.
Anche per il lavoro svolto da un commesso al negozio di scarpe.
Feedback = valutazione.

L'idea è che se il lavoro, una prestazione, una competenza, vengono valutati, il servizio migliora perché dagli errori evidenziati o anche dai complimenti ricevuti, si può trarre una lezione che ci consente di apportare le necessarie modifiche.
E se tutto va bene, se il feedback è positivo, anche in quel caso possono esserci delle modifiche: magari si diventa più creativi!

In Italia, già dai tempi in cui tentava Berlinguer di introdurre una qualche proposta di valutazione della professione insegnante, si gridava allo scandalo.

Certo, anche perché la professione insegnante (che applicava alla valutazione degli studenti la regola:
10 lo prende Dio, 9 lo prendo io, tu al massimo prendi 8) era alquanto terrorizzata all'idea che la stessa regola venisse applicata anche a lei.
Ma anche perché in Italia, anche oggi, si vive la valutazione basata sul binomio promosso o bocciato, una valutazione decisamente punitiva, che , ho scoperto con terrore recentemente, porta i genitori a commettere delle incredibili violenze, anche fisiche sugli insegnanti, sfortunatamente spesso senza reali conseguenze che li tutelino.

Qui la valutazione è continua (ci si aspetta un minimo di due voti settimanali per alunno e che questi voti corrispondano alle stesse prove di valutazione sostenute da tutti gli alunni) ma decisamente costruttiva.
Se i miei studenti non vanno "bene" in un quiz, in un test, hanno una settimana di tempo per sostenere nuovamente la stessa prova, o una equivalente (più o meno a seconda di cosa io ritengo più valido e/o opportuno). Prima di risostenere la prova hanno quindi la possibilità di venire ai tutorial, cioé di presentarsi all'ora di pranzo nella mia aula per chiedere e ricevere spiegazioni su un argomento non ben compreso. Quando devo essere disponibile io? Due volte la settimana, secondo quanto richiesto dalla scuola. In realtà sono pochi quelli di noi che non offrono il loro aiuto praticamente ogni giorno, anche dopo l'orario scolastico.
Sì, si valuta molto, ma si valuta a brevi intervalli, su brevi parti del programma e quindi guidando gli studenti verso il reale apprendimento. Nessuno dovrebbe arrivare al test senza averne appreso tutte le 
singole parti.

Passano tutti? Certo che no! Il materiale umano, che parli inglese, francese, russo, spagnolo o italiano, è sempre lo stesso: adolescenti. Esseri umani ancora non completamente completi che ci metteranno ancora almeno un cinque, sei anni se tutto va bene a capire che i prof scocciano tanto per motivi validi...
Ma per l'adolescenza ancora non è stato trovato un rimedio, quindi si va avanti!

I vantaggi della valutazione a go-go sono tanti negli USA.

Per esempio, se l'Esame di Stato in Italia può eventualmente servire a precedere qualcuno in una graduatoria, o magari a venir considerati semplicemente "tanto bravi", qui gli esami AP (Advanced Placement), equivalenti a degli esami nazionali, servono per accumulare crediti da utilizzare sia per venir scelti dalle migliori università, sia per un percorso universitario più breve (quindi anche meno caro, visti i costi degli studi negli USA), che per l'accesso ai livelli più avanzati delle varie materie.

Nella mia scuola in particolare si offre anche il Baccelleriato Internazionale, che diventa un po' un diploma nel diploma (europeo tra l'altro, nato in Svizzera) e realmente serve a formare studenti capaci di operare in vari ambienti mostrando competenze ma soprattutto la capacità di acquisirne sempre di nuove con grande facilità.

Esamifici? Sì, ma utili, formativi e atti a verificare in corso d'opera (non alla fine di un quadrimestre, di un anno scolastico o di tutto un liceo) se sono necessari interventi da parte di insegnanti e studenti.

Chiaramente la valutazione esiste anche per noi prof.
Questa valutazione, per la quale veniamo preparati accuratamente, si basa sul lavoro in classe, sui rapporti con i colleghi e con i genitori, sui risultati degli studenti, sulla collaborazione collegiale e sulla professionalità in generale. È una valutazione olistica, ma basata su prove concrete (record di contatti con i genitori, programmazione disponibile e pubblica, ecc) e varie visite in classe del valutatore, che dopo aver osservato il lavoro svolto, ne valuta in maniera costruttiva ogni singolo aspetto secondo delle rubriche dettagliate.
Sempre tutto rose e fiori?
Sfortunatamente no.
Può sempre capitare di incappare nel precisino di turno che ama mettere in rilievo le pecche di ognuno di noi, che sicuramente, se davvero lavoriamo tanto, le pecche le accumuliamo, anche quando cerchiamo di essere perfetti...
Io però, devo ammettere che finora mi è andata bene e a parità di impegno rispetto a quando lavoravo in Italia, qui ho visto molti miei sforzi più riconosciuti.

Ecco alcuni link per chi volesse saperne di più:
AP Italian
Baccelleriato (o Baccalaureato) Internazionale


mercoledì 18 novembre 2015

Caro diario

Uno dei miei strumenti preferiti per l'apprendimento (delle lingue e non solo!) è il diario.

La prima volta che l'ho usato io stessa come studente, facevo parte di un laboratorio teatrale. Il momento del diario veniva alla fine della lezione di un'ora e mezza, durante la quale venivano fatte attività a volte comprensibili, a volte meno. Il diario dava un'organizzazione e un senso al tutto. Per qualsiasi cosa uno avesse capito di quello che veniva fatto. Bastava scrivere, scrivere, di qualsiasi cosa si fosse capìta, o anche no.

Per tutta la mia infanzia e l'adolescenza, diari di vario tipo, dimensione e colore mi hanno accompagnata come amici fedeli che ogni sera mi permettevano di esprimere tutta una vita di sensazioni, esperienze e idee.

L'idea del diario in classe me l'ha data il sistema americano con i suoi infallibili warm up a inizio lezione, che immancabilmente vengono presentati in ogni materia. Un altro contributo all'idea sono stati i quick write: in pochi secondi si scrive tutto quello che uno può su un argomento dato.

Grande ansia di prestazione!

Negli anni sia la struttura del diario che il tipo di valutazione e di utilizzo sono cambiati radicalmente e direi che sono in continua fase di evoluzione.

Come funziona?

Gli studenti arrivano in classe e hanno 5 minuti per commentare, descrivere, argomentare vari tipi di stimoli, dal testuale al visivo o sonoro. Può esserci un'immagine proiettata sullo schermo, con o senza testo; una frase, una poesia da comprendere e commentare; una canzone da ascoltare, con o senza testo che aiuti a decifrarla.

I temi scelti possono essere fra i più diversi e vari: si può scegliere di affrontare il tema studiato in quel momento, o anche di presentarne uno che non abbia niente a che vedere con quanto si studia.
La scelta di un tema "out of the blue" consente agli alunni di ampliare il loro vocabolario e anche di rendere il diario più vario e quindi attraente per i ragazzi.
Agli alunni che sostengono gli esami AP, cerco di presentare argomenti che abbiano a che fare con il tema o il sottotema che stiamo studiando in quel momento.

Durante i 5 minuti, gli studenti possono chiedere all'insegnante come dire qualsiasi parola in italiano (o in qualsiasi lungia si insegni). L'insegnante provvede a scrivere ogni parola chiesta alla lavagna, in maniera tale che gli studenti possano creare un piccolo glossario quotidiano sulla stessa pagina del diario.
Tutte le pagine del diario vengono conservate nel loro quaderno con i ganci, per essere riutilizzate durante i diari successivi.

Scaduti i cinque minuti, ne vengono dati agli alunni altri cinque per condividere con il resto della classe quello che hanno scritto. Questo porta a una discussione generale sull'argomento ed è possibile che gli studenti partecipino cambiando idea su quello che hanno scritto.

Dare un tempo limitato (ma neanche tanto: in 5 minuti si può facilmente scrivere un paragrafo bello corposo) consente agli studenti di concentrarsi e di produrre lingua on the spot, una situazione in realtà molto vicina a quello che succede quando si deve comunicare all'estero.
Al tempo stesso la partecipazione orale è resa meno stressante perché ognuno sa di poter contare sul testo scritto prodotto.

Il diario, come daltronde qualsiasi cosa i ragazzi producano nella mia classe, è oggetto di verifica e valutazione: quando uno studente presenta il suo testo viene corretto e deve egli stesso modificare il testo per presentare il venerdì un diario che presenti tracce evidenti di miglioramente.
Riceve poi ben due voti alla settimana: uno di partecipazione, quando presenta il lavoro alla classe e partecipa alla discussione, e uno di completion, consegnando il diario per darmi la possibilità di dargli un feedback su quanto ha scritto e come migliorare.
Questi voti sono più che altro un incentivo allo svolgimento del compito: gli studenti sanno di poter contare su un buon voto in partecipazione basato sul loro lavoro quotidiano.

Il diario è un'esperienza di apprendimento completa: consente di parlare di sé, di esprimere un'opinione e di metterla a confronto con le opinioni degli altri, consentendo anche a volte anche dei cambiamenti e sicuramente aprendo la classe al dialogo. Permette in 10 minuti al giorno di pratica scritta e orale di far scattare dei meccanismi di comprensione e di uso della lingua come strumento comunicativo di un messaggio, non di mera ripetizione di vocabolario e strutture solo memorizzate.

Qui di seguito trovate alcuni esempi di diari che ho proposto ai miei alunni:

Diario

(è un po' in disordine, proprio come la mia cattedra... Dicono che siano tracce di genialità e così io mi consolo...)


Qui trovate alcne idee sull'uso dei quick write: https://wvde.state.wv.us/strategybank/QuickWrites.html

venerdì 13 novembre 2015

A ognuno la sua bacchetta magica


Ogni insegnante ha il suo asso nella manica, la bacchetta magica, gli strumenti tecnologici (e non!) che usa in classe per trasformare tutti quei ranocchi in principi.


Io ne prediligo alcuni, fra i vari strumenti offerti dalle mirabilie tecnologiche di oggidì:


Quizlet
Lo uso dal 2008 e mi meraviglia ogni giorno di più. È una semplice piattaforma su cui è possibile creare flashcard digitali, e che offer poi la possibilità di giocare in vari modi con le stesse flashcard aiutando gli student a memorizzare di tutto! La maggior parte degli utenti lo usano per agevolare la memorizzazione del vocabolario, ma in realtà può essere usata per coniugare verbi, imparare l'uso dei pronomi, la formazione degli avverbi e tutto quello che la creatività vi suggerisce. Utilizzabile in vaie lingue, pronuncia anche per voi le flashcard e se proprio volete, vi consente di utilizzare la vostra voce. Ogni set di flashcard è copiabile, così se ne trovate uno che vorreste usare, ma solo dopo aver apportato delle modifiche, lo aggiungete al vostro account e ne fate quel Potete creare dei gruppi divisi per classe e seguire il progesso degli alunni. Normalmente lo consiglio agli studenti perché creino le flashcard loro stessi (chi fa, impara!). Esiste anche come app, per chi impara on the go!
Eccovi la mia pagina, se volete vedere come lo uso: quizlet.com/mariagloria.


Kahoot
Piccolo strumento, semplicissimo da usare per creare quiz, discussioni o sondaggi, genera un codice che viene dato agli studenti e oplà, come per magia si finisce in un gioco a cui partecipano tutti con il computer o dal telefonino! Con una musichetta di sottofondo accattivante e dei colori vivaci, la possibilità di inserire immagini e stabilire i tempi di risposta, nonché di avere soluzioni corrette multiple, Kahoot diventa facilmente il gioco preferito degli studenti e un'ottima risorsa di ripasso per gli insegnanti.
Ecco i link: create.kahoot.it per creare i quiz e generare il codice, kahoot.it per giocare. Il mio profilo, se volete vedere come lo uso è mariagloria

Blendspace
Ottimo per applicare la Flipped Instruction, ma anche solo per offrire agli alunni una varietà di risorse online, riunendole tutte in uno strumento unico, versatile e interattivo. In un unico strumento si possono unire video, documenti di vario tipo, che gli alunni possono scaricare e utilizzare da soli, o che possono commentare sullo stesso Blendspace. Io lo uso sia per fare l'upload dei video grammaticali che creo o che trovo online, per mostrare video su un tema particolare o mostrare dei materiali su cui possono esercitarsi prima di una prova orale o scritta.
Eccovi la mia pagina per degli esempi: Blendspace

Wikispaces
Fino a qualche anno fa mi arrabattavo cercando di creare in HTML il sito web della mia classe online per offrire agli alunni uno spazio su cui trovare sempre materiali, link e informazioni dettagliate e aggiornate sui miei corsi. Poi finalmente ho scoperto Wikispaces, che mi consente di preoccuparmi solo dei contenuti e minimamente della forma. Nonostante la mia scuola usi una piattaforma online, continuo a usare il Wiki: le piattaforme scolastiche cambiano come cambia il vento, il mio spazio online no!
Qui trovate i due Wiki che uso più di frequente: uno per gli alunni che preparano l'esame AP (www.apitalian.wikispaces.com), l'altro per tutte le altre classi (www.bhsitalian.wikispaces.com).


venerdì 6 novembre 2015

Comunicazioni scuola-famiglia, ovvero La persecuzione programmata

I genitori sono le fondamenta sulle quali si basa tutto quello che insegno.

Sono alleati infallibili e preziosi, quelli che continuano a casa il mio lavoro, correggono, consigliano, calmano le teste calde e me le rimandano il giorno dopo aperte al dialogo e alla collaborazione.
Sono i preziosi princìpi della famiglia e della collaborazione, dei valori su cui costruire la società del futuro e delle generazioni migliori.

A volte.

Altre volte invece sono spie nemiche, che difendono le posizioni del potere (perché a casa loro è evidente chi lo detiene, il potere) a tutti i costi e minano la stabilità del governo delle mie lezioni.
Tentano di trovare delle falle nel sistema (numerose, ma mai visibili!!) del mio insegnamento per giustificare l'assenteismo, la mancanza di compiti, la momentanea pennica sul banco, la cannetta ricreazionale, i voti bassi, i progetti non consegnati, e la domanda è sempre per me.
"Perché mio figlio ha questo/quel voto e non questo o quell'altro? Perché non viene in classe? Perché?"

E già il fatto che vengano a chiederlo a me invece che al rampollo reale spiega tutto.

Perché diciamolo, quando il pargolo adorato sa che a casa non verrà MAI messo in discussione il suo discutibilissimo comportamento e/o il suo rendimento, il giovine virgulto tende a strainfischiarsene dei risultati, contando proprio sulla fallacità del rapporto genitore-insegnante.

Quindi, anche il genitore ha le sue ragioni: perché fare domande a chi adora e non lo degnerebbe comunque di una risposta?

Gli resta solo l'insegnante.

Diventa un po' come parlare a se stessi o al vento.

È insomma come se il genitore si vedesse rispecchiato nell'insegnante, quell'essere che lui non stima, così come suo figlio non stima lui (o lei a seconda del caso).

Da parte mia dunque, grande comprensione-compassione-testa-china-da-un-lato e lacrimuccia alla Pierrot.

E siccome pure io devo sopravvivere all'anno scolastico con un minimo di sanità mentale alla fine, comincio la persecuzione programmata.

Perché c'è da dire, che anche se capisco la debolezza genitoriale, preferisco comunque stare dalla parte mia.

Mi appresto dunque a inviare a casa note accurate su ogni movimento del pargolo, che sia un quiz per cui non aveva studiato, una domanda non risposta, un sonnellino di pochi secondi sul banco, una risposta poco gentile, un ritardo qualsiasi.

Un'informazione quotidiana, fatta di mail inviate anche due volte al giorno se necessario.
Cominciano sempre con il riconoscimento dell'aiuto genitoriale per aver affrontato il problema e terminano sempre con i ringraziamenti per l'aiuto e la collaborazione offerta con il primo contatto.

I risultati sono vari: alcuni genitori dopo il primo centinaio di mail scompaiono, inghiottiti dalla voragine provocata dalla realtà, altri decidono che a casa qualcosa deve cambiare e con un colpo di stato dittatoriale riaffermano la loro autorità e mi rimandano il giorno dopo dei lord inglesi con maniere impeccabili e un'infinita sete di sapere, altri ancora vengono consumati dagli acidi gastrici e non se ne ha più notizia.

Fortunatamente almeno finora i genitori con cui ho avuto a che fare si sono dimostrati ragionevoli.

Sarà perché do loro risultati.

Sarà perché sanno che i loro piccini, anche quando sembrano camionisti culturisti e gli tocca abbassare lo sguardo per guardarmi negli occhi, anche quando se alzassero un ditino mi ridurrebbero in cenere, i loro piccini dicevo, nella mia classe sono al sicuro, in un nido protetto dove se gli devo dire che non hanno studiato non gli dico "Good job!", ma gli insegno cosa devono cambiare per riuscire a imparare, dove il rispetto è alla base delle mie azioni e deve essere alla base delle loro.

Sarà perché le possibilità di recupero nella mia classe sono migliaia, ripetute, ribadite e a volte imposte, sempre per il bene del cucciolo.

Nella mia classe oserei dire che fallire è IMPOSSIBILE, a meno che non sia l'obiettivo finale dello studente.

Vademecum dei rapporti con i genitori:

1. i genitori hanno sempre ragione: bisogna solo fargli capire che stiamo dalla stessa parte, che anche noi vogliamo il bene dei loro figli. Il consiglio è solo uno: COALIZZIAMOCI.

2. gli adolescenti hanno un cervello non completamente sviluppato (lo so che lo avevate già notato... Repetita iuvant, pure per gli insegnanti) (Da leggere e guardare: I meccanismi misteriosi del cervello degli adolescenti), quindi abbiate pietà: sono vostri per un paio di anni, ma i genitori se li devono ciucciare a vita.

3. la persecuzione da me proposta  è in realtà la necessaria comunicazione che dovrebbe esserci con i genitori, che realmente a volte si vedono proposta una versione dei fatti diciamo un pochino fuorviata.

4. non ci vuole molto per creare un bel rapporto col nemico, mandare una lettera a casa all'inizio dell'anno per informare le famiglie su cosa verrà fatto in classe, fare una riunione per semestre, magari per mostrare i lavori e i risultati dei ragazzi, aiuta ad aprire le classi all'esterno e riduce la vulnerabilità dell'insegnante. Gli studenti diventano a quel punto parte integrante di quello che mostra l'insegnante e magari finisce anche che si sentano orgogliosi del loro lavoro.

5. ma soprattutto, alla base di tutto ci deve essere un lavoro fatto in prevalenza dai ragazzi: l'insegnante è il Deus Ex Machina, il regista, colui che guida le azioni e risolve i problemi, gli studenti sono quelli che devono fare per imparare. E noi dobbiamo stare seduti a guardare il risultato del LORO lavoro.



Happy watching!

domenica 9 agosto 2015

Da un lavoro all'altro, come Tarzan sulle liane.

Sono un'insegnante.

Questa affermazione ha dei significati strettamente legati al territorio in cui viene pronunciata.
Non tanto perché chi insegna può facilmente dover cambiare il paese in cui lavora, soprattutto ora, e quindi anche la lingua in cui si esprime quotidianamente, ma soprattutto perché il lavoro stesso dell'insegnante implica un adattamento alla realtà circostante che lo porta un po' ad assomigliare sempre più a un camaleonte.

Mi tocca tornare indietro nel tempo, a quando nel 2006, dopo due anni di fidanzamento (a distanza, part-time, schizofrenico e anche meravigliosamente pacifico, considerando che a causa del fuso orario ero sempre assopita quando finalmente potevamo collegarci su Skype) io e il mio colombiano abbiamo deciso di sposarci.

Non affronto le peripezie burocratiche che scaturiscono da un incontro italo-colombo-statunitense.

Dopo circa un mesetto di vacanze-campeggio in giro per la Corsica e le spiaggie sarde, ci siamo resi conto che bisognava pensare a dove avremmo costruito il nostro nido.

La mia isola non si è mostrata molto accogliente dal punto di vista lavorativo e chiaramente è toccato a me spiccare il volo verso il Nuovo Mondo.

Presa una meravigliosa aspettativa per motivi di famiglia, sono approdata sulla costa est, alla conquista delle scuole texane.

Dopo un paio di settimane seguivo già un percorso alternativo per avere accesso all'insegnamento nelle scuole texane.
Sborsati $300 per un paio di anni di impegno con un'agenzia formativa, dopo quattro mesi avevo già trovato lavoro per un distretto scolastico come insegnante bilingue, avevo un avvocato che si sarebbe occupato della burocrazia migratoria, ed ero diventata una maestra bilingue.

Detto così sembra semplice, in realtà almeno per l'aspetto burocratico, legato anche a movimenti e pertinenze abbastanza sospette, il percorso ha avuto anche i suoi ostacoli.

Venendo dalla scuola pubblica italiana, con vari anni di esperienza sia alle elementari che alle medie e nell'insegnamento agli adulti, con due concorsi alle spalle e vari corsi di aggiornamento, conseguire l'abilitazione (anzi, LE abilitazioni, ben 7!) negli Stati Uniti è stato decisamente facile.

Gli esami si preparavano nel tempo libero, un po' come da noi si fanno le parole crociate; una, due volte la settimana si frequentava il corso, e alla fine del primo anno sono stati fatti i corsi online.
Praticamente un gioco da bambini rispetto ai due anni di studio intenso di lingua, letteratura e metodologia che sono necessari per affrontare in maniera onesta i concorsi in patria.

Certo, anche in Italia di abilitazioni ne avevo comunque varie, ma la facilità di accesso all'insegnamento negli Stati Uniti non ha paragoni. (Il che è un vantaggio per chi vuole insegnare, ma anche una delle ragioni per cui secondo me molti mollano dopo pochi anni, perché, avendo sottovalutato il mestiere giudicandolo dal biglietto di ingresso, davanti a una classe affamata di sapere, uno che ne ha poco crolla...)

Primo anno da maestra bilingue
Mentre le mie colleghe in Italia si godevano ancora il sole sulle spiagge d'agosto, io a metà mese ero già al lavoro, in piena fase preparatoria, a seguire corsi di aggiornamento per otto ore al giorno per una settimana.
40 ore di aggiornamento.
E ancora non avevo visto una classe.
L'aula sì, quella non solo l'avevo vista, ma dopo le otto ore di aggiornamento dovevo anche andare ad adornarla didatticamente, stabilendo cosa avrei insegnato dove e come e qual era il posto di ogni libro e ogni oggetto che avrei usato durante l'anno.
Programmazione strutturale la chiamerei, o come usare pareti, angoli, banchi e lavagne perché tutto abbia un senso, un suo uso e una sua logica.
Considerando che in Italia la mia aula di inglese alle elementari era stata ricavata da un passaggio che metteva in comunicazione due parti dell'edificio scolastico e che quindi ci portava a dover praticare all'eccesso i saluti verso chi passava nel bel mezzo della lezione, e che alle medie le pareti erano normalmente occupate da varie cartine, mi sentivo in paradiso.
Avevo uno spazio mio, che finalmente poteva diventare uno strumento di insegnamento, non più solo quattro mura da cui fuggire.

Certo, le mura di casa mia di solito non le vedevo prima delle otto di sera.

Poi è cominciato l'anno scolastico. Più o meno come in Italia: due ore di programmazione settimanale, il solito lavoro di programmazione individuale dopo le lezioni.
Più due ore di corsi di recupero per gli alunni che ne avevano bisogno alle sette della mattina.
Più arrivare almeno mezz'ora prima delle lezioni (alle 6:30 martedì e giovedì, alle sette gli altri giorni).
Più i corsi di aggiornamento il sabato (che sennò non ti rinnovano l'abilitazione dopo cinque anni).

Insomma, una vita lavorativa intensa.

Senza contare le ore di studio che ti toccano quando sei laureata in lingue e devi insegnare scienze, matematica, studi sociali (americani, quindi sconosciuti) e preparare gli alunni a sostenere esami mai visti.

Poi sono passata al liceo a insegnare francese.

Il liceo: my cup of tea!
Indubbiamente meno studio a monte: almeno la materia, la conoscevo già!

Niente aula: il liceo con una popolazione di più di 3500 alunni non aveva spazi adeguati e mi toccava fare la floater (che avendo a che fare con il verbo galleggiare porta a riferimenti chiari, almeno per un'italiana) e spingere materiali e strumenti tecnologici su un carrello da un'aula all'altra. (In Italia tanto avrei dovuto comunque vagare fra i locali di un qualunque istituto, non accompagnata però né da materiali, né da tecnologia...)

Con il tempo (e il licenziamento di un numero notevole di insegnanti a causa di tagli al bilancio (che un po' ci sono, un po' vengono usati come scuse per una pulizia accademica quando di accademico l'insegnante aveva ben poco...), ho cominciato a insegnare anche italiano e poco a poco il programma di italiano è cresciuto: ora insegno felicemente a sei classi, di cui una di ben 44 studenti (li chiamo i 44 gatti e ogni tanto ci cantiamo anche la canzone...).

Grande successo di pubblico insomma.

Mi riposo di più che alle elementari?

Certo che no!
Adesso anziché dover fare i corsi di recupero alle sette di mattina, devo farli tutti i giorni all'ora di pranzo, quindi passo le lezioni del dopo pranzo a ruminare la mia insalata mentre spiego i pronomi o un tempo verbale.

Elegante come sempre, io.

E poi ci sono i concorsi vari, le associazioni studentesche da sponsorizzare, gli esami di stato a cui preparare gli alunni che sennò la scuola non prende soldi, gli scambi da organizzare per portare gli alunni in Italia quasi a costo zero (io ho insegnato, insegno e sempre insegnerò solo ed esclusivamente nella scuola pubblica, quindi offro opportunità il più possibile gratis o a costi che quasi tutti possano permettersi).

Il tempo libero?
Essere insegnanti porta indubbiamente il vantaggio del tempo libero.
È però il concetto del tempo libero che cambia.
In Italia nessuno poteva togliermi di andare in palestra, a fare una paseggiata con le amiche, di pomeriggio la pennichella del dopo Beautiful non me la toglieva nessuno. Il giorno libero potevo decidere come passarlo, magari a organizzare la casa, fare il bucato, oppure a leggere un libro (i blog per perdere tempo ancora non li conoscevo...) e poi arrivava anche il fine settimana!!!
Per non parlare dell'orario dei giorni lavorativi: con 18 ore di contratto c'erano anche le giornate che dormivo fino alle 9:30!!
Insomma, l'equivalente di un lavoro part-time...
Non confondiamoci, anche lo stipendio era da part-time.
Ma la creatività e l'amore per gli alunni veniva incontro alle bollette e ogni anno c'erano progetti in più a cui lavorare (sottopagati quando non gratis...).

Anche negli USA il tempo libero degli insegnanti è molto invidiato: le vacanze vanno dal 30 maggio fin ben al 10 agosto, 15 giorni a Natale (oh, sorry! Winter Break!!!), Venerdì Santo libero e una settimana di Spring Break. Che pure aggiungendoci il Martin Luther King Day non siamo nemmeno vicino alle vacanze italiane...
Sabato libero per tutti, il weekend diventa un'oasi di respiro a fine settimana.
Lo stipendio, lavorando 40 ore contrattuali la settimana, è il doppio.
E il lavoro pure.
E anche con lo stipendio al doppio la realtà è che la maggior parte degli insegnanti (non sposati con ingegneri chimici, medici o avvocati...) devono comunque arrotondare con altri lavori.
Io ne ho ben tre.
Liceo, università la sera e anche online una volta al mese di notte per una settimana.

Il vantaggio è che se qui vuoi arrotondare hai solo l'imbarazzo della scelta: mai rifiutate tante opportunità come da quando sto qui.

La valutazione
No, non degli alunni.
La mia.
Sì, perché una delle più grandi differenze fra USA e Italia come insegnanti è che qui, a te che tanto te la meni che stai dietro una cattedra, alla fine dell'anno ti fanno una pagella così!

Il mio si chiama TADS (Teacher Appraisal and Development System), quello del mio colombiano si chiama PDAS. Stessa roba.
Durante l'anno devi dimostrare più volte di essere un bravo insegnante, di avere rapporti cordiali e costruttivi con i colleghi e con i genitori, di aver aiutato fino allo sfinimento gli alunni prima di riciclarli nell'apposito contenitore, con strategie sempre diverse, metodi appropriati, creatività, comprensione e infinite possibilità di recupero; devi dimostrare di aver seguito infiniti corsi di aggiornamento e di aver adattato di conseguenza il tuo insegnamento.
Ma soprattutto: non te la devi fare addosso quando vengono e si siedono in classe ad osservare la tua performance.
Entrano di soppiatto, nemmeno salutano, si siedono in un angolino, guardano e scrivono, guardano e scrivono...
Mentre tu ti chiedi: ma che c'avrai da scrivere????
Quello che da scrivere aveva, ti viene poi comunicato per iscritto e può anche essere discusso in un regolare colloquio con il valutatore (sempre interno alla scuola). Non ti piace cosa ha scritto e/o detto? Chiedi un altro valutatore.

E se tutto va bene, piovono i complimenti a destra e a manca e tu finisci l'anno sentendoti una divinità dell'apprendimento.
Oppure no.

Insomma, a conti fatti insegnare qui, insegnare lì, i ragazzi sono sempre ragazzi.
Vogliono essere ascoltati, apprezzati, capiti e vogliono avere la possibilità di sbagliare senza che tu ti arrenda.

E perché un insegnante non si arrenda è necessario un sistema che valuti, apprezzi, sborsi i quattrini dovuti e offra strumenti e metodologie per farci andare avanti e stimolarci a imparare e aver ogni giorno una voglia nuova di insegnare.

mercoledì 28 gennaio 2015

Ancora in ritardo...

Eccomi qui, creato il mio blog...
Tante cose da dire...
Accidenti mi chiude l'asilo e devo scappare a prendere i bambini.

Se siete insegnanti anche voi, mi capirete!!!

A presto!